Trattasi di libere rielaborazioni di casi clinici reali nelle quali l'utilizzo di nomi e scenari fittizi tutela la privacy delle persone coinvolte senza nulla togliere alle dinamiche psicologiche sottese.
"Mi chiamo Erminio e non so perché sono qui...".
Così esordiva al nostro primo incontro questo giovane sui trent'anni.
Elegantissimo, impeccabile nel vestire e garbato nei modi appariva come una persona tanto apprensiva e turbata, trincerata dietro ad una immagine elegante, distinta, ricercata. La sua affettata eleganza strideva con il disorientamento, l'esitazione e il timore che i suoi occhi, il suo sguardo e il suo viso mostravano; ma, ad una più attenta valutazione, era palese che questa sua ostentazione non era altro che un modo per proteggersi dallo sguardo indagatore e fastidioso degli altri: doveva essere perfetto per evitare le critiche che temeva più di ogni altra cosa al mondo.
Capii che si sentiva sotto giudizio e questo capita spesso nelle persone che si accomodano davanti a me, specialmente la prima volta. Ma percepivo che in lui c'era qualcosa di più del timore di una valutazione negativa, c'era quasi il terrore di fare una brutta figura, quasi fosse quasi una questione di vita o di morte.
Mi è capitato spesso di trattare la paura del giudizio (è una forma di ansia) nei miei studi a Forlì e San Mauro Pascoli.
Spinto più dalla paura di dare un'immagine pavida di sé qualora avesse deciso di non continuare che non da una reale convinzione circa le
possibilità della terapia Erminio decise di iniziare il percorso regolare con me. Si coglieva bene che si trattava di un'imposizione che lui
faceva a se stesso e questo tipo di cogenza non aiuta la terapia.
Iniziò a parlare del suo lavoro, della sua partner, dei suoi interessi, e poi, via via, delle sue ansie, delle sue paure, della sua ossessività.
Ma il suo eloquio che si faceva via via più spedito e veloce appariva artificioso, costruito...
Parlava come un libro stampato: troppo preciso, troppo esatto, troppo «di senso compiuto», senza mai una sfumatura,
un'esitazione... Si dava le risposte da solo, subito dopo aver formulato le domande.
Egli parlava come una persona che analizza, che «sancisce» e che «sa il fatto suo». In altre parole come
chi giudica continuamente.
E colui che tendenzialmente giudica lo fa per la paura di venire giudicato.
Non era semplice questo lavoro terapeutico e spesso mi sentivo impotente: non riuscivo a "spostare" i nostri colloquii su di un terreno
più fertile, su quello che permette il libero fluire delle sensazioni senza implicazioni doveristiche e giudizi, cioè su quel terreno produttivo
che consente un confronto sincero, diretto, costruttivo.
I contenuti che mi portava erano anche interessanti: c'erano i rapporti con una madre iperansiosa e con un padre troppo autoritario che, sin da
quando era piccino, lo avevano condizionato pesantemente. Ma erano contenuti privi di pathos, di affettività, di «humus».
Parlava di sé, delle vicissitudini personali (anche pesanti), come se raccontasse la storia di un altro, di qualcuno molto lontano da sé, di
qualcuno con cui non aveva mai avuto a che fare direttamente. Erminio parlava di emozioni ma non le mostrava minimamente.
Capita, durante i colloquii terapeutici, di ritrovarmi ad ascoltare racconti di disagi, problemi, sofferenze esposti come se non appartenessero a colui che ne sta parlando. È una modalità relazionale che tutti noi a volte (o anche spesso) utilizziamo, perlopiù senza accorgercene, quando parliamo con gli altri. Ma da un punto di vista terapeutico si tratta di una forma di difesa: la persona che la sta adoperando prende le distanze (emotivamente) da ciò che la fa stare male, che la disturba. È fondamentale, nel mio lavoro, individuare la forma di difesa principale di cui si serve la persona che sta davanti a me.
Questo perché dietro a questa difesa sta il nucleo principale del suo problema.
La costanza nel lavoro terapeutico, però, diede i suoi frutti. Erminio piano piano iniziò a comprendere che io non lo giudicavo minimamente
e che, anzi, ero sinceramente interessato alle sue sofferenze. E capì che il mio intento era quello di aiutarlo e non quello di giudicarlo.
Probabilmente con lui sono riuscito ad utilizzare l'ascolto empatico (che rispetta, comprende e cerca potenzialità) a differenza dell'ascolto
critico (che giudica cercando errori e difetti) utilizzato prevalentemente dai suoi genitori. Ci volle parecchio tempo però Erminio divenne
più sciolto nel suo rapportarsi agli altri, meno timoroso di dare di sé un'immagine inadeguata. E più tranquillo emotivamente.
Ricordo che all'ultima seduta si presentò vestito con pantaloni sportivi ed una felpa (dopo anni di irrinunciabile giacca e cravatta). "Ma non si vergogna?!" lo stuzzicai a tale proposito nel congedarlo. "Grazie di tutto..." mi rispose con gli occhi lucidi.
Se vorresti avere un consulto, oppure un semplice parere su problematiche come la paura del giudizio, contattami negli studi di Forlì o a San Mauro Pascoli.
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Dott. Giancarlo Signorini, Psicologo Psicoterapeuta a Forlì e San Mauro Pascoli, iscritto all'Ordine degli Psicologi della regione Emilia Romagna n. 3312.
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